Sono nella mia tana bolognese.
È un altro giorno in cui la città ha visto scendere in piazza un corteo di protesta, pronto a lanciare per domani uno sciopero sociale contro il governo che tenta di modificare di nuovo l'Articolo 18 e contro il programma Youth Guarantee – la risposta europea alla crisi dell'occupazione giovanile – il quale, invece di porre rimedio al danno, sembra non far altro che istituzionalizzare la precarietà.
La verità è tanto ovvia quanto difficile da accettare; sono sempre le stesse proteste contro gli stessi vertici, i cui esponenti non riescono a guardare mai al di là del proprio tornaconto. Siamo nel ventunesimo secolo, apparteniamo agli anni del progresso e dell'emancipazione quando nuovi diritti pian piano vengono conquistati, ma, ad ogni passo avanti che riusciamo a fare in una direzione, ne facciamo dieci a ritroso dall'altra.
Ho partecipato a diverse manifestazioni, avere il coraggio di alzare gli occhi da terra e far sentire la voce è per me in questi casi doveroso e non inutile; eppure oggi, passando accanto, è comparso sul viso, involontario quanto spontaneo, un sorriso, smorfia di amara rassegnazione. Girato l'angolo ero già lì che provavo vergogna di me stessa.
È un altro giorno in cui la città ha visto scendere in piazza un corteo di protesta, pronto a lanciare per domani uno sciopero sociale contro il governo che tenta di modificare di nuovo l'Articolo 18 e contro il programma Youth Guarantee – la risposta europea alla crisi dell'occupazione giovanile – il quale, invece di porre rimedio al danno, sembra non far altro che istituzionalizzare la precarietà.
La verità è tanto ovvia quanto difficile da accettare; sono sempre le stesse proteste contro gli stessi vertici, i cui esponenti non riescono a guardare mai al di là del proprio tornaconto. Siamo nel ventunesimo secolo, apparteniamo agli anni del progresso e dell'emancipazione quando nuovi diritti pian piano vengono conquistati, ma, ad ogni passo avanti che riusciamo a fare in una direzione, ne facciamo dieci a ritroso dall'altra.
Ho partecipato a diverse manifestazioni, avere il coraggio di alzare gli occhi da terra e far sentire la voce è per me in questi casi doveroso e non inutile; eppure oggi, passando accanto, è comparso sul viso, involontario quanto spontaneo, un sorriso, smorfia di amara rassegnazione. Girato l'angolo ero già lì che provavo vergogna di me stessa.
Neanche a farci apposta, proprio ora, leggendo tra le riviste sparse sul tavolo, mi è capitato sotto gli occhi, doloroso come una frustata, un pezzo di Antonio Gramsci pubblicato nel 1917.
Parole già note, ma lasciate morire nei cassetti bui della memoria.
Le riporto qui perché mi (ci) sia di lezione, per le prossime lotte, per qualsiasi tipo di battaglia saremo chiamati ad affrontare, piccole o grandi che siano.
Lo devo a lui e ad altri come lui.
Parole già note, ma lasciate morire nei cassetti bui della memoria.
Le riporto qui perché mi (ci) sia di lezione, per le prossime lotte, per qualsiasi tipo di battaglia saremo chiamati ad affrontare, piccole o grandi che siano.
Lo devo a lui e ad altri come lui.
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani.
Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano.
L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia.
L’indifferenza opera potentemente nella storia.
Opera passivamente, ma opera.
È
la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i
programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che
strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su
tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà,
lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia
salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.
Tra
l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun
controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora,
perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere
tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme
fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime
tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva,
chi era stato attivo e chi indifferente.
Alcuni
piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o
pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi
cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è
successo?
Odio
gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro
piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come
ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone
quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha
fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia
pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono
partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare
l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa
la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è
dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini.
Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi
si sacrificano, si svenano.
Vivo, sono partigiano.
Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.