venerdì 1 luglio 2016

Mi ero messa in testa di non scriverci più. Non ho mai veramente smesso di sentire le dita doloranti, macchiare le pagine bianche e il lato della mano d'inchiostro.
Il tavolo è sempre pieno di fogli e quaderni. La mia calligrafia sismografica compone grovigli che non son fatti per essere pubblici, perché questa matassa è delicata e, se me la stracciate, potrei rimanerci secca.
Ma un'amica, una sorella, anche la voglia di aprirsi tutta è riuscita a lasciare. Mi butto, ché fa bene. Lascio scorrere e non ci penso, però parlo a te, Sara.
L'ho attraversato il ponte della Parma che porta verso casa; un passo dopo l'altro cercavo di seguire le orme segnate dai tuoi e ti ho immaginata correrci sopra a perdifiato, come la prima volta che mi ti sei presentata davanti, proprio a fine giugno di otto anni fa, l'ho detto l'altro giorno con la voce che tremava: "zaino in spalla e capelli al vento". Ho oltrepassato più e più volte ciò che rimane della secca del fiume con le braccia incrociate, aggrappandomi stretta alla maglietta che avevo addosso, tirata fuori da quel tuo personalissimo e poetico disordine che a stento anche lui può esser chiamato monolocale.
Sei rimasta lì dentro, ciascun oggetto sussurra piano il tuo nome e arriva dritto al cuore e dritto all'intestino, quel cervello addominale che a volte dicevi anche tu di non riuscire a sentire più. Fa male.
Il volersi a tutti i costi spiegare e non riuscirci provoca una morsa di uguale intensità, sono vocaboli ed espressioni che escono senza la pretesa di essere capiti, va a finire che suonano presuntuosi oppure, presuntuosa, lo sono io, che insisto tanto. È un tentativo disperato, già perso in partenza. Come si può? Un modo, anche qui, me l'avresti certamente indicato e, quando c'eri tu a tendere la mano, poi tutto andava come doveva essere.
Mi giro a guardare i piedi del letto e fatico a credere che questa sera o domani non starai seduta sul pavimento a ridere; era in uno di questi momenti che te l'ho detto, di volerti bene. Sulle piastrelle in cotto avevi lasciato le impronte dei palmi e ti avevo spinta a disegnarci sopra le linee del destino per sceglierti da sola la tua vita felice; ora sale un brivido, ma nessuno può farmi recedere dal pensare che, felice, tu lo sia realmente stata, nonostante tutto.
È piena estate, aria calda e sole che tramonta; la luce attraversa il vetro del barattolo vuoto che a San Giovanni ti avrei chiesto di aiutarmi a riempire. Lo farò l'anno prossimo. Là fuori, stranamente, qualcosa è ancora bello, qualcuno non ha proprio mai smesso di esserlo, neanche un istante.
Quell'uscita rimandata e poi rimasta sospesa, allora, la spenderò con loro.
Andremo a prendere l'aquilone, il pescecane Gabri ha detto che è salvo, i 3 baiocchi sono qui al sicuro e, tu, sempre e per sempre. "Noi si va!", continuiamo, sul fondo di ogni strada fai ancora cenno.