giovedì 26 febbraio 2015

La mancata di ciclicità e i dubbi esistenziali che comporta

Lontana dal resto del mondo, ho eretto i mattoni della mia immaginaria "stanza tutta per me", ci sono solo io qui. Solo pochi minuti, non chiedo altro che un attimo di tregua, potermi godere la lentezza del rumore dei miei polmoni inspirare tutta l'aria che riescono a trattenere e ricacciarla fuori, poi esco.
Entrambe le mani sono appoggiate poco al di sotto dell'ombelico, sui due lati del basso ventre, in modo da mantenere tutto il calore. Ho imparato a mie spese (e non solo mie) che molti dei sintomi fisici e dolori che percepiamo derivano da disordini emotivi, crisi psicologiche.
Congelata e inerte di fronte alla paura di qualsiasi cosa mi si presentasse davanti, ho vissuto un periodo, per buona sorte superato, in totale balìa della vertigine, senza poter fare un altro passo per terrore di crollare, trattenevo il fiato e rimanevo in apnea per paura di non riuscire più a respirare. 
Se questa è stata la mia debolezza, l'amore che ho per la vita è riuscita a sconfiggerla e mai avrei pensato di essere così coraggiosa.
Questa lotta però ha lasciato sul mio corpo i segni di aggressione, ferite che devo ancora risanare. 
La mia femminilità è stata lacerata e tra questi brandelli avverto il vuoto, invisibile per coloro che non abitano la mia pelle e che si soffermano alla superficie, ma c'è.
Si dice che una macchia di sangue non basti per diventare o essere una donna, ma è pur sempre necessaria e non avere neanche quella rende una femmina più confusa di quanto non lo sia già per antonomasia.
Mi sento esclusa, incompleta, uscita dal cerchio delle danzatrici, spogliata di uno dei più splendidi misteri del creato, che mesi fa possedevo anche io.
Così la mia innata indole materna (essendo primogenita) si è mescolata, come l'acqua con l'olio, con la ferma (e stupida, lo so...) convinzione che l'atto di procreazione sia la realizzazione di un desiderio principalmente egoista e con l'inquietudine per la sofferenza della separazione causata da un probabile parto.
Ecco, quest'idea mi trattiene e non mi molla.
Molto spesso niente può distogliermi dalla malata opinione che far nascere una creatura in questo mondo sia estremamente sadico, tutto in contraddizione con quello che ho scritto l'ultima volta e con la mia vitalità.
Non mi dilungo per timore di cadere nel ridicolo o in discorsi troppo intrecciati per scioglierne i nodi, non saprei neanche io dove andare a parare; so solo che sono due pensieri e modi di fare troppo diversi perché questi possano convivere insieme, e io convivere con loro.
Ritorno sdraiata sul letto, con le gambe all'insù appoggiate al muro, a chiedermi quando riuscirò di nuovo a sentire che anche il mio grembo possa abbracciare al suo interno un universo e quanto ancora bisogna aspettare per poter maturare davvero.
Per adesso ripongo le mie ultime speranze nelle inani tisane di edera e un po' di yoga.

mercoledì 4 febbraio 2015

Mentre la città si risveglia, in un mattino d'inverno

Dentro di me si è accesa una luce.
L'ho sentita nascere distintamente, mentre camminavo a passo svelto tra le vie della città. Una forma d'amore che rifiuta la troppo stretta capienza di qualunque termine scritto o verbale, eppure vuol essere rivelata e pungola a scribacchiare.
Alle 7 e mezza di mattina, Bologna ancora faticava, nel freddo, a riprendersi dal sonno notturno. Tra la calma generale si poteva scorgere solo il rumore delle serrande che venivano alzate e, passando davanti ai bar, quello dei cucchiaini sbattere sulle tazzine da caffè; una giornata come tante, che di speciale avrebbe avuto solo un cielo color bianco latte e forse qualche fiocco di neve.
Invece eccolo, mi riscalda e inizio a camminare più veloce, in modo euforico.
È il calore che si prova nel petto all'arrivo di una vita nuova; un bimbo, un fratello.
Le cose d'ora in poi saranno diverse, ma i cambiamenti di questo genere non possono che renderle migliori. Pensavo a questo stamattina e poi, dal cielo, qualche batuffolo bianco è caduto realmente.