giovedì 12 novembre 2015

10 film (+ 5)

Si ricomincia.
Cinefilìa al limite del parossismo.
Il monolocale è buio, l'unica luce in stanza è quella fredda del monitor, che mi illumina gli appunti e le occhiaie, mentre poco più in là, nel letto, si dorme. La mano destra è indolenzita, ma non smette di torturare la penna con l'unghia dell'indice, che segna su carta pensieri e impressioni, perlopiù sconnessi, di ciò che vedo.
È una di quelle stanchezze che fanno sentire vivi e non ti permettono di prendere sonno.
Scorrono le ultime parole di chiusura di Dies Irae di Dreyer, sulla retina volteggiano ancora le sue ombre in bianco e nero e io non perdo tempo a fargli posto tra i miei film preferiti. 
Ne elenco dieci, in ordine casuale, tra quelli che amo ed ho amato di più; è un mio vizio questo di fare liste per ogni cosa ("pro e contro" solitamente, per poi scegliere la via meno razionale... così anche per il Cinema, finisco per innamorarmi di ciò che all'inizio ho detestato solo perché non riuscivo ad afferrare), un modo come un altro per capirci. E altri cinque, 10 soli non bastano.

  Dies Irae di Carl Theodor Dreyer: Ho letto molto di lui, Dreyer, e molto ho letto anche riguardo i suoi film. La mia professoressa d'università sostiene che un film, per conoscerlo bene, bisogna guardarlo, dall'inizio alla fine, almeno tre volte. Io le do ragione e ho sempre seguito il suo consiglio prima di dire qualsiasi cosa di una pellicola, ma questo Dreyer lo sento già mio. Dies Irae lo ripongo nel cofanetto dei preferiti, perché sapevo fin dall'inizio che ne avrebbe fatto parte. E il cofanetto lo chiudo a chiave, ne sono un po' gelosa.
Vade retro il femminismo estremo, ma quando ho davanti agli occhi una protagonista come Anne, il marchio "sesso debole" brucia ancora di più e mi incazzo.
La visione tragica della vita di Kierkegaard si reifica in lei.
Suo flagello è l'amore che sprigiona; non di Dio, che nel 17°secolo veniva imposto più che mai, ma quello carnale e terreno di una donna.
L'amore sensuale che trova i suoi doppi nella natura rigogliosa della breve estate nordica (che si vede poco, quasi tutto il film è girato all'interno di ambienti claustrofobici), nel desiderio umanissimo di maternità e l'abbandono verso l'amato.
Scegliendo la terra al posto del cielo, però, si trova la morte.
La solitudine soffoca, divora lentamente; Anne chiede al vecchio pastore a cui è legata per accordo "Abbracciami e rendimi felice", ricevendo come risposta le sue spalle e silenzio. "Abbracciami e rendimi felice" è ciò che allora ripete a Martin, suo figliastro, coetaneo, da cui riceve attenzione per motivi puramente fisiologici.
Repressa, cuce sul telaio la divinità pagana Flora (dea della rinascita, della Primavera e dei fiori, organi sessuali della natura).
"L'incesto", alla fine, viene da lei confessato, perché una vera donna, oltre che coraggiosa, è anche sincera, e il vecchio pastore le muore d'infarto davanti agli occhi.
Accusata di stregoneria, ereditata da sua madre, arsa sul rogo, farà la stessa fine, pensando di meritarselo.
Ogni peccato ha il suo castigo, ma se Anne è il personaggio più traviato di Dies Irae è anche quello più sano.
Paradosso: un grande desiderio di amore e di vitalità trascina con sé dolore e morte.
Questo, spesso, solo per noi maliziose e tentatrici streghe od oggi puttane.
Tutto generato in buona fede degli altri, ovviamente, senza crudeltà; chi punta il dito è sempre nel giusto. L'empatia è inevitabile.



Le tempestaire di Jean Epstein: Primo amore non si scorda mai. Con il tentativo di indagare e scoprire le potenzialità ancora inesplorate del linguaggio cinematografico, Epstein compone pura poesia di immagini e suoni. La naturalità della realtà vista sotto una dimensione spazio-temporale diversa. La sua parola d'ordine è "animismo"; ciò che è statico, sullo schermo, prende vita e inizia a muoversi, mentre ciò che solitamente si muove, come le onde del mare di Bretagna, si congela. 


Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos: Ci sono regioni balcaniche devastate dalla guerra del '91/'95, dopo il crollo del comunismo. Lunghi piani-sequenza mostrano una Grecia fredda e matrigna; uomini e palazzi fatiscenti se ne stanno immobili ad aspettare. Aspettare cosa? Sono esiliati, estranei alla propria terra.
Il protagonista si muove, ma è un viaggio verso l'ignoto, e da questo moto nasce in lui l'emotività del ricordo, generata dalla nostalgia.
La necessaria ed intima volontà di ritrovarsi, ora che nulla è più lo stesso e tutto è perduto. È una ricerca del primo sguardo e una riflessione sul concetto di bellezza, effimero spiraglio di luce in mezzo a tanto buio, così impalpabile che, nel momento in cui si cerca di rappresentarla, la si uccide. La macchina da presa davanti a ciò che è bello diventa una pistola e il pulsante di registrazione diventa grilletto, ma questo primo sguardo esiste, è ciò che ha catturato a non esistere più.
Il film è uno struggente lamento di dolore davanti alla morte, che altro non è che la regressione dell'uomo verso il nulla. Sebbene presenti tratti del tutto nichilisti, il viaggio del protagonista è un viaggio di crescita (come lo è la maggior parte) e di presa di coscienza; un lungo cammino che non termina mai e finisce per ricominciare ancora.
Difficile spiegare a parole un film dove, ad un certo punto, un uomo, davanti ad un baratro, lancia alla Natura un biscotto in segno di disperazione e grida: "Maledetta Natura... sei sola vero? Anche io sono solo! Tieni, prendi un biscotto!". Angelopoulos mostra in questa maniera la sua personale visione tragica, quanto mai comune. Sterilità dei piaceri materiali, illusori ed effimeri, che non possono placare lo scorrere del tempo e il nostro schiantarci verso l'inevitabile destino. A che servono?
La Natura, di un biscotto, che se ne fa?! 

Une histoire de vent di Joris Ivens: Se il film di Angelopoulos è un gemito soffocato di fronte al nullismo, Io e il vento di Joris Ivens (Une histoire de vent è il titolo originale) è un inno alla vita, o meglio al senso che l'uomo-individuo può dare alla sua.
Film autobiografico-documentario, il protagonista è il regista stesso, novantenne, malato di asma, che decide di partire un'ultima volta per la Cina e lì catturare con la cinepresa il suo personale "non-filmabile": il vento, inteso come "pneuma" o soffio dell'anima.
Il luogo scelto per l'impresa è il deserto del Gobi, situato tra la Cina settentrionale e la Mongolia. La sabbia è immobile, estremamente raro che si presenti qualche turbolenza. Ivens, seduto su una sedia in mezzo al nulla, aspetta...
Realtà, reminiscenze e sogni si danno il cambio senza preavviso.
Méliès è citato esplicitamente, viene ricostruita la sua famosa scena dello sbarco sulla Luna.
I flashback sono i suoi ricordi di bambino; gioca a fare il pilota dentro un aeroplano di cartone, ai piedi di un grande mulino che taglia a fette l'aria con la sua grossa elica. Durante un primissimo piano delle pale che girano e si alternano all'interno dell'inquadratura, il suono della raffica è così nitido che sembra d'esser lì sotto.
Ci addentriamo insieme ad Ivens nel cuore della tradizione folklorica cinese: il Buddha gigante di Dazu, dalle mille mani d'oro e dai mille occhi (dopo l'inquadratura su uno dei tanti occhi, vediamo il diaframma dell'obbiettivo di una macchina da presa aprirsi e chiudersi veloce, come fosse una palpebra); un vecchio maestro rivela i segreti tai chi sulla respirazione; un artigiano forgia per lui una maschera di terracotta dello Spirito dell'Aria. Alla fine crolleranno tutti i suoi preconcetti su ciò che può essere considerato logico o meno. Un'anziana maliarda traccia con le dita un simbolo magico sulla sabbia del deserto e il vento che non si prestava ad arrivare, finalmente, si alza.



•  Lo specchio di Andrej Tarkovskij: Prima opera di Tarkovskij in cui mi sono imbattuta.
Non conoscendo per nulla né lui né la trama, sono arrivata a metà film domandandomi che diavolo stessi guardando. Non lo capivo. La terza volta andava già meglio, ora lo considero uno dei film più belli di sempre, in primis perché mi ha fatto scoprire il regista.
Ho paura di chiosarlo con frasi fatte, non mi va.
È impalpabile, le immagini scorrono come fossero acqua (e l'acqua è l'elemento più cinematografico, come sostiene Tarkovskij). Grava, ma è leggero. Una vita passata si rispecchia nella nuova generazione, un uomo rivede sé stesso nel figlio, ma la pellicola ruota tutta attorno alla figura della madre (e moglie). Non dico altro.
"Stare un po' zitti fa bene. Le parole non possono esprimere quello che l'uomo sente, sono sempre fiacche".

Stalker sempre Andrej Tarkovskij: Il più dostoevskijano dei film di Tarkovskij, il protagonista può essere visto come figura analoga a quella dell'"idiota".
È lui lo stalker, che niente ha a che fare con uomini dagli atteggiamenti di tipo persecutorio, ma è il nome che si dà agli individui che hanno scoperto una grande verità e ne sono stati così profondamente toccati da non poter fare a meno di condividerla con gli altri. A trarre beneficio della sua sofferta filantropia sono due banali persone, soprannominate rispettivamente Scrittore e Professore. Lo stalker li guiderà verso la "zona", luogo fantasma e occulto, concretizzazione della dimensione interiore antròpica.
Da una rovinosa Russia dipinta in bianco e nero, dopo aver attraversato illegalmente posti di blocco e binari del treno in disuso, i tre arrivano a destinazione.
L'immagine prende inaspettatamente colore e la natura dispiega in pieno il suo linguaggio. La vegetazione ha sopraffatto ogni costruzione umana, da ogni angolo e da ogni crepa dei pochi muri rimasti serpeggiano piante ed erbacce selvatiche.
Il silenzio è agghiacciante e si cerca di riempirlo come si può. Le leggi fisiche fondamentali sono stravolte: qui "la strada dritta non è la più corta" e "nessuno è mai tornato indietro per la stessa via", non è possibile proseguire il cammino prima di essersi accertati che il sentiero sia sicuro, tirando nella direzione scelta "uno di quei bei dadini".
Ogni incontro tra i personaggi, ogni oggetto, ogni battuta si carica di intenzioni simboliche, ravvivando vite condannate a spegnersi nell'alienante routine.
Si presentano monologhi dall'irruenza verbale di in fiume in piena, e si riflette sulla propria infelice condizione; ci si scava dentro, così che ogni passo è un'epifania di quello che si è in realtà.
L'obiettivo è una stanza in grado di poter esaudire qualsiasi desiderio, ma non i desideri pronunciati ad alta voce, bensì quelli inconsci, più profondi, di cui forse non ne è a conoscenza neanche il proprietario. Vengono esaudite le fantasie più avide, meschine e becere, quelle che ognuno nega di avere. Per questo il vecchio Porcospino, in passato, si suicidò, ricevendo al posto della resurrezione del fratello una montagna di soldi.
Si viene obbligati a guardare in faccia, ad occhi spalancati, il vuoto e l'orrore che si porta dentro.
I tre passeggeri cosa ne faranno di questa stanza? Perché sono lì? In cosa sperano?
Non lo anticipo.
"Quando nasce, l'uomo è tenero e debole; quando muore, è duro e rigido. [...] Rigidità e forza sono compagni della morte; debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell'esistenza. Ciò che si è irrigidito non vincerà."
L'unica speranza è l'ultimo personaggio che si vede nel film, a chiusura.
Nascosto nell'ombra finora, detiene la genuinità che li salverà.



Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci: Ovvero come il boom economico degli anni '60 degradò gli individui in componenti informi della massa borghese.
Girato dall'autore all'età di soli 23 anni, mettendo in pratica le lezioni della Nouvelle Vogue francese (il film è pieno di jump cut e la continuità narrativa è volutamente destrutturata).
Si parla della nostalgia del presente, del sentimento di struggimento da parte di un ragazzo proveniente dall'appena ieri. Il protagonista sente il peso dell'avvertimento di un apocalittico mutamento, aspettando una svolta nel verso opposto, attendendo una rivoluzione che non verrà, che è lì, ma non scoppia, perché è sempre prima della rivoluzione quando si è come lui (e come me, forse).

Une partie de campagne / La scampagnata di Jean Renoir: Romantico e spensierato nonostante il triste finale di una storia d'amore appena nata e già finita.
È un'opera delicata, di una mezz'oretta circa, che dà nuova vita ai dipinti impressionisti del padre del regista.
Ricordo di aver pianto durante la scena dove i due stanno all'ombra sotto un albero, a sentir cantare un usignolo, non so perché. 
Da guardare esclusivamente in lingua originale (con i sottotitoli se servono), il doppiaggio italiano lo distrugge. 



[Nel frattempo sono passate le 3 di notte, inizio a prender botta...]

Medea di Lars Von Trier: Se Antonin Artaud sostiene che ogni autentica effigie ha un'ombra che costituisce il suo doppio, Medea della tragedia di Epicuro ne è la prova.
La prima scena del film è quella che preferisco: non si sente nulla, Medea è distesa a terra con la faccia rivolta in direzione del mare. Al sentore dell'arrivo di Giasone, ha una fitta di dolore e affonda gli artigli nella sabbia bagnata. La macchina da presa inizia il suo movimento vorticoso con Medea come perno, a simboleggiare il disturbo emotivo di lei. L'acqua sporca di alghe e foglie marce le copre il volto quasi ad annegarla; la nave arriva e lei riemerge ansante.
Devo ammettere che non provo simpatia per Lars Von Trier, difficilmente mi metterò a guardare contenta i due volumi di Nynphomaniac. L'esperienza a questo punto mi dice che diventerà uno dei miei registi preferiti, staremo a vedere...
Per adesso continuo a fare l'ignorante, ma Medea è un capolavoro, tanto da farmelo preferire a quello di Pasolini (ed è dire tanto!).



Il posto delle fragole di Ingmar Bergman: Una vita giunta al termine, un uomo vecchio e solo (interpretato da Victor Sjostrom) riceve, nel suo austero studio, una lettera che lo invita a ritirare il premio per i suoi cinquant'anni di carriera scientifica.
La notte prima di partire un incubo lo sconvolge. Un orologio senza lancette con due occhi grandi lo fissano, da una carrozza funebre cade una bara e dentro la bara c'è lui, morto.
Il mattino seguente, invece dell'aereo, decide di avviarsi verso il luogo della cerimonia in macchina, in compagnia della nuora, che non lo sopporta.
Anche questo sarà un viaggio spirituale.
Il vecchio uomo capisce di aver sprecato la sua vita ad inseguire valori sbagliati e trascurato quelli importanti.
Uno dopo l'altro si ripresentano sotto i suoi occhi i luoghi e gli eventi della sua giovinezza.
Nascosta tra gli alberi, ritrova la casa dove abitava molti anni fa insieme alla sua famiglia, da lui chiamata "il posto delle fragole", rivede il suo primo e forse unico amore.
Che cos'è che ha fatto di lui l'anziano arrogante che è diventato? Come è stato possibile perdere tutta quella bontà e innocenza?
Il viaggio continua tra incontri e oggetti custodi della memoria, diventa storia di conversione e serena meditazione sulla vita e sulla morte.
È un film sul tempo e sulle pesanti maschere che l'uomo è costretto a mettersi per celare le proprie crisi e i propri dolori, che son causa di vergogna, come un amore non corrisposto. Allora tanto vale far finta che non importi niente, si diventa rigidi, l'apatia prende il sopravvento e a far da scudo; ma, ad ottant'anni, a sentir rimbombare i ticchettii dell'orologio, ci si accorge che non è più possibile perdere tempo, e che, finché si è vivi, non è mai troppo tardi per ricominciare.
Basta così un incubo per far cadere la sua fredda neutralità esistenziale e gettarlo in un'angosciante ma benefica crisi psico-mistica.
Siamo fragili noi esseri umani.

Poi ci sono Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini (non posso non citarne uno con la Magnani o di PPP);  Rapsodia Satanica di Nino Oxilia; La collina dei papaveri di Goro Miyazaki (degno figlio di Hayao); e In girum imus nocte et consumimur igni di Guy Debord (se di film si può parlare) per chiudere in contraddizione con tutto ciò che ho detto. Il titolo è palindromo, dal latino "Vaghiamo nella notte e siamo consumati dal fuoco". Il fuoco come rivoluzione, ma l'acqua del tempo accoglie chi lo conquista e lo spegne. È un'opera contro lo spettacolo, che rivendica la distruzione del Cinema inteso come rapporto sociale alienante che ipnotizza e isola gli individui gli uni dagli altri, promuovendo passività e quella che Lucacks chiama "falsa coscienza del tempo". Spossessamento e disumanizzazione, generati dal finto benessere, e nostalgia dei tempi andati, di quando "non ci si accontentava di immagini".
Bisogna guardarlo, lo consiglio a tutti.
Io contro il Cinema non posso avere niente, ma, alla Debord, "detourno" le sue parole e potrei insolentemente rivolgerle a chi abusa dei social-media e lì si riversa tutto.
"Senza dubbio il nostro tempo preferisce l'immagine alla cosa, la copia all'originale, la rappresentazione alla realtà, l'apparenza all'essere. Ciò che per esso è sacro, non è che l'illusione, ma ciò che è profano, è la verità. Ai suoi occhi il sacro aumenta man mano che decresce la verità e che cresce l'illusione, tanto che per esso il colmo dell'illusione è anche il colmo del sacro." (Feuerbach)