giovedì 12 novembre 2015

10 film (+ 5)

Si ricomincia.
Cinefilìa al limite del parossismo.
Il monolocale è buio, l'unica luce in stanza è quella fredda del monitor, che mi illumina gli appunti e le occhiaie, mentre poco più in là, nel letto, si dorme. La mano destra è indolenzita, ma non smette di torturare la penna con l'unghia dell'indice, che segna su carta pensieri e impressioni, perlopiù sconnessi, di ciò che vedo.
È una di quelle stanchezze che fanno sentire vivi e non ti permettono di prendere sonno.
Scorrono le ultime parole di chiusura di Dies Irae di Dreyer, sulla retina volteggiano ancora le sue ombre in bianco e nero e io non perdo tempo a fargli posto tra i miei film preferiti. 
Ne elenco dieci, in ordine casuale, tra quelli che amo ed ho amato di più; è un mio vizio questo di fare liste per ogni cosa ("pro e contro" solitamente, per poi scegliere la via meno razionale... così anche per il Cinema, finisco per innamorarmi di ciò che all'inizio ho detestato solo perché non riuscivo ad afferrare), un modo come un altro per capirci. E altri cinque, 10 soli non bastano.

  Dies Irae di Carl Theodor Dreyer: Ho letto molto di lui, Dreyer, e molto ho letto anche riguardo i suoi film. La mia professoressa d'università sostiene che un film, per conoscerlo bene, bisogna guardarlo, dall'inizio alla fine, almeno tre volte. Io le do ragione e ho sempre seguito il suo consiglio prima di dire qualsiasi cosa di una pellicola, ma questo Dreyer lo sento già mio. Dies Irae lo ripongo nel cofanetto dei preferiti, perché sapevo fin dall'inizio che ne avrebbe fatto parte. E il cofanetto lo chiudo a chiave, ne sono un po' gelosa.
Vade retro il femminismo estremo, ma quando ho davanti agli occhi una protagonista come Anne, il marchio "sesso debole" brucia ancora di più e mi incazzo.
La visione tragica della vita di Kierkegaard si reifica in lei.
Suo flagello è l'amore che sprigiona; non di Dio, che nel 17°secolo veniva imposto più che mai, ma quello carnale e terreno di una donna.
L'amore sensuale che trova i suoi doppi nella natura rigogliosa della breve estate nordica (che si vede poco, quasi tutto il film è girato all'interno di ambienti claustrofobici), nel desiderio umanissimo di maternità e l'abbandono verso l'amato.
Scegliendo la terra al posto del cielo, però, si trova la morte.
La solitudine soffoca, divora lentamente; Anne chiede al vecchio pastore a cui è legata per accordo "Abbracciami e rendimi felice", ricevendo come risposta le sue spalle e silenzio. "Abbracciami e rendimi felice" è ciò che allora ripete a Martin, suo figliastro, coetaneo, da cui riceve attenzione per motivi puramente fisiologici.
Repressa, cuce sul telaio la divinità pagana Flora (dea della rinascita, della Primavera e dei fiori, organi sessuali della natura).
"L'incesto", alla fine, viene da lei confessato, perché una vera donna, oltre che coraggiosa, è anche sincera, e il vecchio pastore le muore d'infarto davanti agli occhi.
Accusata di stregoneria, ereditata da sua madre, arsa sul rogo, farà la stessa fine, pensando di meritarselo.
Ogni peccato ha il suo castigo, ma se Anne è il personaggio più traviato di Dies Irae è anche quello più sano.
Paradosso: un grande desiderio di amore e di vitalità trascina con sé dolore e morte.
Questo, spesso, solo per noi maliziose e tentatrici streghe od oggi puttane.
Tutto generato in buona fede degli altri, ovviamente, senza crudeltà; chi punta il dito è sempre nel giusto. L'empatia è inevitabile.



Le tempestaire di Jean Epstein: Primo amore non si scorda mai. Con il tentativo di indagare e scoprire le potenzialità ancora inesplorate del linguaggio cinematografico, Epstein compone pura poesia di immagini e suoni. La naturalità della realtà vista sotto una dimensione spazio-temporale diversa. La sua parola d'ordine è "animismo"; ciò che è statico, sullo schermo, prende vita e inizia a muoversi, mentre ciò che solitamente si muove, come le onde del mare di Bretagna, si congela. 


Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos: Ci sono regioni balcaniche devastate dalla guerra del '91/'95, dopo il crollo del comunismo. Lunghi piani-sequenza mostrano una Grecia fredda e matrigna; uomini e palazzi fatiscenti se ne stanno immobili ad aspettare. Aspettare cosa? Sono esiliati, estranei alla propria terra.
Il protagonista si muove, ma è un viaggio verso l'ignoto, e da questo moto nasce in lui l'emotività del ricordo, generata dalla nostalgia.
La necessaria ed intima volontà di ritrovarsi, ora che nulla è più lo stesso e tutto è perduto. È una ricerca del primo sguardo e una riflessione sul concetto di bellezza, effimero spiraglio di luce in mezzo a tanto buio, così impalpabile che, nel momento in cui si cerca di rappresentarla, la si uccide. La macchina da presa davanti a ciò che è bello diventa una pistola e il pulsante di registrazione diventa grilletto, ma questo primo sguardo esiste, è ciò che ha catturato a non esistere più.
Il film è uno struggente lamento di dolore davanti alla morte, che altro non è che la regressione dell'uomo verso il nulla. Sebbene presenti tratti del tutto nichilisti, il viaggio del protagonista è un viaggio di crescita (come lo è la maggior parte) e di presa di coscienza; un lungo cammino che non termina mai e finisce per ricominciare ancora.
Difficile spiegare a parole un film dove, ad un certo punto, un uomo, davanti ad un baratro, lancia alla Natura un biscotto in segno di disperazione e grida: "Maledetta Natura... sei sola vero? Anche io sono solo! Tieni, prendi un biscotto!". Angelopoulos mostra in questa maniera la sua personale visione tragica, quanto mai comune. Sterilità dei piaceri materiali, illusori ed effimeri, che non possono placare lo scorrere del tempo e il nostro schiantarci verso l'inevitabile destino. A che servono?
La Natura, di un biscotto, che se ne fa?! 

Une histoire de vent di Joris Ivens: Se il film di Angelopoulos è un gemito soffocato di fronte al nullismo, Io e il vento di Joris Ivens (Une histoire de vent è il titolo originale) è un inno alla vita, o meglio al senso che l'uomo-individuo può dare alla sua.
Film autobiografico-documentario, il protagonista è il regista stesso, novantenne, malato di asma, che decide di partire un'ultima volta per la Cina e lì catturare con la cinepresa il suo personale "non-filmabile": il vento, inteso come "pneuma" o soffio dell'anima.
Il luogo scelto per l'impresa è il deserto del Gobi, situato tra la Cina settentrionale e la Mongolia. La sabbia è immobile, estremamente raro che si presenti qualche turbolenza. Ivens, seduto su una sedia in mezzo al nulla, aspetta...
Realtà, reminiscenze e sogni si danno il cambio senza preavviso.
Méliès è citato esplicitamente, viene ricostruita la sua famosa scena dello sbarco sulla Luna.
I flashback sono i suoi ricordi di bambino; gioca a fare il pilota dentro un aeroplano di cartone, ai piedi di un grande mulino che taglia a fette l'aria con la sua grossa elica. Durante un primissimo piano delle pale che girano e si alternano all'interno dell'inquadratura, il suono della raffica è così nitido che sembra d'esser lì sotto.
Ci addentriamo insieme ad Ivens nel cuore della tradizione folklorica cinese: il Buddha gigante di Dazu, dalle mille mani d'oro e dai mille occhi (dopo l'inquadratura su uno dei tanti occhi, vediamo il diaframma dell'obbiettivo di una macchina da presa aprirsi e chiudersi veloce, come fosse una palpebra); un vecchio maestro rivela i segreti tai chi sulla respirazione; un artigiano forgia per lui una maschera di terracotta dello Spirito dell'Aria. Alla fine crolleranno tutti i suoi preconcetti su ciò che può essere considerato logico o meno. Un'anziana maliarda traccia con le dita un simbolo magico sulla sabbia del deserto e il vento che non si prestava ad arrivare, finalmente, si alza.



•  Lo specchio di Andrej Tarkovskij: Prima opera di Tarkovskij in cui mi sono imbattuta.
Non conoscendo per nulla né lui né la trama, sono arrivata a metà film domandandomi che diavolo stessi guardando. Non lo capivo. La terza volta andava già meglio, ora lo considero uno dei film più belli di sempre, in primis perché mi ha fatto scoprire il regista.
Ho paura di chiosarlo con frasi fatte, non mi va.
È impalpabile, le immagini scorrono come fossero acqua (e l'acqua è l'elemento più cinematografico, come sostiene Tarkovskij). Grava, ma è leggero. Una vita passata si rispecchia nella nuova generazione, un uomo rivede sé stesso nel figlio, ma la pellicola ruota tutta attorno alla figura della madre (e moglie). Non dico altro.
"Stare un po' zitti fa bene. Le parole non possono esprimere quello che l'uomo sente, sono sempre fiacche".

Stalker sempre Andrej Tarkovskij: Il più dostoevskijano dei film di Tarkovskij, il protagonista può essere visto come figura analoga a quella dell'"idiota".
È lui lo stalker, che niente ha a che fare con uomini dagli atteggiamenti di tipo persecutorio, ma è il nome che si dà agli individui che hanno scoperto una grande verità e ne sono stati così profondamente toccati da non poter fare a meno di condividerla con gli altri. A trarre beneficio della sua sofferta filantropia sono due banali persone, soprannominate rispettivamente Scrittore e Professore. Lo stalker li guiderà verso la "zona", luogo fantasma e occulto, concretizzazione della dimensione interiore antròpica.
Da una rovinosa Russia dipinta in bianco e nero, dopo aver attraversato illegalmente posti di blocco e binari del treno in disuso, i tre arrivano a destinazione.
L'immagine prende inaspettatamente colore e la natura dispiega in pieno il suo linguaggio. La vegetazione ha sopraffatto ogni costruzione umana, da ogni angolo e da ogni crepa dei pochi muri rimasti serpeggiano piante ed erbacce selvatiche.
Il silenzio è agghiacciante e si cerca di riempirlo come si può. Le leggi fisiche fondamentali sono stravolte: qui "la strada dritta non è la più corta" e "nessuno è mai tornato indietro per la stessa via", non è possibile proseguire il cammino prima di essersi accertati che il sentiero sia sicuro, tirando nella direzione scelta "uno di quei bei dadini".
Ogni incontro tra i personaggi, ogni oggetto, ogni battuta si carica di intenzioni simboliche, ravvivando vite condannate a spegnersi nell'alienante routine.
Si presentano monologhi dall'irruenza verbale di in fiume in piena, e si riflette sulla propria infelice condizione; ci si scava dentro, così che ogni passo è un'epifania di quello che si è in realtà.
L'obiettivo è una stanza in grado di poter esaudire qualsiasi desiderio, ma non i desideri pronunciati ad alta voce, bensì quelli inconsci, più profondi, di cui forse non ne è a conoscenza neanche il proprietario. Vengono esaudite le fantasie più avide, meschine e becere, quelle che ognuno nega di avere. Per questo il vecchio Porcospino, in passato, si suicidò, ricevendo al posto della resurrezione del fratello una montagna di soldi.
Si viene obbligati a guardare in faccia, ad occhi spalancati, il vuoto e l'orrore che si porta dentro.
I tre passeggeri cosa ne faranno di questa stanza? Perché sono lì? In cosa sperano?
Non lo anticipo.
"Quando nasce, l'uomo è tenero e debole; quando muore, è duro e rigido. [...] Rigidità e forza sono compagni della morte; debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell'esistenza. Ciò che si è irrigidito non vincerà."
L'unica speranza è l'ultimo personaggio che si vede nel film, a chiusura.
Nascosto nell'ombra finora, detiene la genuinità che li salverà.



Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci: Ovvero come il boom economico degli anni '60 degradò gli individui in componenti informi della massa borghese.
Girato dall'autore all'età di soli 23 anni, mettendo in pratica le lezioni della Nouvelle Vogue francese (il film è pieno di jump cut e la continuità narrativa è volutamente destrutturata).
Si parla della nostalgia del presente, del sentimento di struggimento da parte di un ragazzo proveniente dall'appena ieri. Il protagonista sente il peso dell'avvertimento di un apocalittico mutamento, aspettando una svolta nel verso opposto, attendendo una rivoluzione che non verrà, che è lì, ma non scoppia, perché è sempre prima della rivoluzione quando si è come lui (e come me, forse).

Une partie de campagne / La scampagnata di Jean Renoir: Romantico e spensierato nonostante il triste finale di una storia d'amore appena nata e già finita.
È un'opera delicata, di una mezz'oretta circa, che dà nuova vita ai dipinti impressionisti del padre del regista.
Ricordo di aver pianto durante la scena dove i due stanno all'ombra sotto un albero, a sentir cantare un usignolo, non so perché. 
Da guardare esclusivamente in lingua originale (con i sottotitoli se servono), il doppiaggio italiano lo distrugge. 



[Nel frattempo sono passate le 3 di notte, inizio a prender botta...]

Medea di Lars Von Trier: Se Antonin Artaud sostiene che ogni autentica effigie ha un'ombra che costituisce il suo doppio, Medea della tragedia di Epicuro ne è la prova.
La prima scena del film è quella che preferisco: non si sente nulla, Medea è distesa a terra con la faccia rivolta in direzione del mare. Al sentore dell'arrivo di Giasone, ha una fitta di dolore e affonda gli artigli nella sabbia bagnata. La macchina da presa inizia il suo movimento vorticoso con Medea come perno, a simboleggiare il disturbo emotivo di lei. L'acqua sporca di alghe e foglie marce le copre il volto quasi ad annegarla; la nave arriva e lei riemerge ansante.
Devo ammettere che non provo simpatia per Lars Von Trier, difficilmente mi metterò a guardare contenta i due volumi di Nynphomaniac. L'esperienza a questo punto mi dice che diventerà uno dei miei registi preferiti, staremo a vedere...
Per adesso continuo a fare l'ignorante, ma Medea è un capolavoro, tanto da farmelo preferire a quello di Pasolini (ed è dire tanto!).



Il posto delle fragole di Ingmar Bergman: Una vita giunta al termine, un uomo vecchio e solo (interpretato da Victor Sjostrom) riceve, nel suo austero studio, una lettera che lo invita a ritirare il premio per i suoi cinquant'anni di carriera scientifica.
La notte prima di partire un incubo lo sconvolge. Un orologio senza lancette con due occhi grandi lo fissano, da una carrozza funebre cade una bara e dentro la bara c'è lui, morto.
Il mattino seguente, invece dell'aereo, decide di avviarsi verso il luogo della cerimonia in macchina, in compagnia della nuora, che non lo sopporta.
Anche questo sarà un viaggio spirituale.
Il vecchio uomo capisce di aver sprecato la sua vita ad inseguire valori sbagliati e trascurato quelli importanti.
Uno dopo l'altro si ripresentano sotto i suoi occhi i luoghi e gli eventi della sua giovinezza.
Nascosta tra gli alberi, ritrova la casa dove abitava molti anni fa insieme alla sua famiglia, da lui chiamata "il posto delle fragole", rivede il suo primo e forse unico amore.
Che cos'è che ha fatto di lui l'anziano arrogante che è diventato? Come è stato possibile perdere tutta quella bontà e innocenza?
Il viaggio continua tra incontri e oggetti custodi della memoria, diventa storia di conversione e serena meditazione sulla vita e sulla morte.
È un film sul tempo e sulle pesanti maschere che l'uomo è costretto a mettersi per celare le proprie crisi e i propri dolori, che son causa di vergogna, come un amore non corrisposto. Allora tanto vale far finta che non importi niente, si diventa rigidi, l'apatia prende il sopravvento e a far da scudo; ma, ad ottant'anni, a sentir rimbombare i ticchettii dell'orologio, ci si accorge che non è più possibile perdere tempo, e che, finché si è vivi, non è mai troppo tardi per ricominciare.
Basta così un incubo per far cadere la sua fredda neutralità esistenziale e gettarlo in un'angosciante ma benefica crisi psico-mistica.
Siamo fragili noi esseri umani.

Poi ci sono Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini (non posso non citarne uno con la Magnani o di PPP);  Rapsodia Satanica di Nino Oxilia; La collina dei papaveri di Goro Miyazaki (degno figlio di Hayao); e In girum imus nocte et consumimur igni di Guy Debord (se di film si può parlare) per chiudere in contraddizione con tutto ciò che ho detto. Il titolo è palindromo, dal latino "Vaghiamo nella notte e siamo consumati dal fuoco". Il fuoco come rivoluzione, ma l'acqua del tempo accoglie chi lo conquista e lo spegne. È un'opera contro lo spettacolo, che rivendica la distruzione del Cinema inteso come rapporto sociale alienante che ipnotizza e isola gli individui gli uni dagli altri, promuovendo passività e quella che Lucacks chiama "falsa coscienza del tempo". Spossessamento e disumanizzazione, generati dal finto benessere, e nostalgia dei tempi andati, di quando "non ci si accontentava di immagini".
Bisogna guardarlo, lo consiglio a tutti.
Io contro il Cinema non posso avere niente, ma, alla Debord, "detourno" le sue parole e potrei insolentemente rivolgerle a chi abusa dei social-media e lì si riversa tutto.
"Senza dubbio il nostro tempo preferisce l'immagine alla cosa, la copia all'originale, la rappresentazione alla realtà, l'apparenza all'essere. Ciò che per esso è sacro, non è che l'illusione, ma ciò che è profano, è la verità. Ai suoi occhi il sacro aumenta man mano che decresce la verità e che cresce l'illusione, tanto che per esso il colmo dell'illusione è anche il colmo del sacro." (Feuerbach)

venerdì 28 agosto 2015

Mediterraneo, Salento e Matera: resoconto di un viaggio

Troverò pure qualcosa da scrivere...
Il rumore del treno sulle rotaie somiglia a quello del battito cardiaco, ci avete mai fatto caso? Col diminuire dei chilometri verso la meta prestabilita, il mio ha iniziato ad aumentare di frequenza.
Mediterraneo e Salento quindi, ovvero mare e deserto, onde e terra spaccata dal sole, due ambienti del tutto antitetici, eppure così simili e vicini.
Realtà desertificate come lo sono gli spazi lontani dalle grandi città a cui siamo abituati. È stato bello vedere che in qualche angolo persiste ancora quest'aura inconsueta; anche se è ridotto a un flebile luccichio, qualcosa per ora forse resiste.
Una volta arrivate in Salento, ad accoglierci troviamo l'incessante frinire delle cicale, sempre presente; colonna sonora sgorgata dai rami degli alberi come fosse resina.
Abbiamo trascorso alcuni giorni tra Gallipoli, Martina Franca e Alberobello, fra ore interminabili in attesa del treno tra una sosta e l'altra e, una volta in carrozza, passate a fissare le distese di ulivi che affondano le loro radici nella terra rossa.
Ma io, in realtà, è di Matera che voglio parlare, il motivo che mi ha spinta a partire.
Matera, Matàhr per coloro che la abitano, ti riempie gli occhi fino a far male.
I sassi risplendono al sole di luce bianca e accecano dopo un po' che li si guarda, ma è difficile mollare la presa. Quando inizi a sentir bruciare le pupille, le butti idealmente a bagnarsi nell'acqua della Gravina giù di sotto, il torrente che divide in due la città, poi torni a fissare.
Questo corso d'acqua è ciò che squarcia anche il "canyon".
Da qualsiasi angolo della città ci si possa affacciare, davanti si spalanca l'arido strapiombo, ricoperto di arbusti secchi; uno stormo di rondini cade giù in picchiata lungo il precipizio, passandoti prima così vicino da spostarti i capelli e sentirle sbattere le ali. Il leggero senso di smarrimento ha a che fare con la natura stessa del posto, per anni abbandonato a se stesso. 
Un mese prima di partire, avevo comprato Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. La curiosità per il libro è nata quando ho letto nell'opera autobiografica di Miriam Mafai, ex-militante del PCI, parlare delle condizioni del Sud Italia prima degli anni '50/'60, citando passi del testo di Levi. La Legge del 1952 ha permesso il risanamento del rione dei Sassi e da quel giorno è cambiato tutto.
Matera sarà anche stata la vergogna d'Italia, eppure in quelle case/grotte scavate nel tufo si avverte qualcosa di magico. Alcuni oggetti sono stati conservati e, accanto ad un vecchio specchio ossidato, c'è ancora la fotografia in bianco e nero dell'ultima coppia che ha vissuto in una di quelle cave, prima dello sfollamento; un'unica immagine su carta carbone ha immortalato la coerenza dei loro volti, la loro storia e dignità alla prova del tempo.
Il giorno dopo, sotto il sole cocente già alle 10 del mattino, ci inerpichiamo sui gradini che conducono alla Cattedrale, in cima al Sasso Barisano.
A tutto ciò che vedo si sovrappongono i fotogrammi del Vangelo secondo Matteo di Pasolini. Alla fine di una malconcia e polverosa scalinata, c'è un poster disegnato a mano che ritrae il regista a grandezza naturale. L'uomo morto che tiene fra le braccia, in un gesto di Pietà laica, non riesco a capire chi sia, se un contadino del luogo, un personaggio di uno dei suoi film oppure se stesso, ma immagino sia un rimando al mondo pre-industriale.
Credo che della loro salma non possa che rimanere un vuoto incolmabile.
Un incidente involontario, provocato da qualche passante, ha mutilato la carta del disegno, uno strappo bianco ne cancella per sempre una parte. Aver deciso di tenerlo così è forse un monito? Un gesto di resa? Non sembrerebbe essere la seconda; gli anziani materani difendono ancora alcune usanze di una vita passata, insieme a memorie che davanti agli "stranieri" si impegnano a tradurle in racconti. Su di me, penso si sia capito, hanno lasciato un segno indelebile.

Ho caricato alcune foto in questa pagina.


lunedì 13 luglio 2015

In sella ad una moto



Voliamo liberi sopra strisce d'asfalto, mentre il sole è l'unico compagno che riscalda il nostro abbraccio. Nuvole di ovatta inventano forme nuove ad ogni attimo, ogni fremito di fiducia che sfugge e non si fa capire.
Guardando diventare cosa unica il cielo e il mare lungo il confine, mi assale quella voglia di andar via che ho sempre avuto, ma che ogni tanto ignoro, così da essere costretta poi a sfogarla senza rendermene conto, vivendo da pendolare tra una regione e l'altra, riempendo borse e zaini appena sento stia iniziando ad abituarmi al punto della cartina dove alloggio. Ora che posso, voglio liberarla.
I libri sono chiusi, le tesine scritte, la lampada della scrivania non verrà accesa per un po'. Procedendo spediti nell'aria, mi rendo conto che devo tornare a impadronirmi del tempo, che di recente ho visto allontanarsi più veloce di noi.

giovedì 28 maggio 2015

Inverosimile nostalgia di un periodo mai vissuto

«Zavattini sosteneva che, da quando registi e produttori hanno smesso di prendere l'autobus, sono finite le idee.
Il nostro mestiere era condotto in maniera artigianale, seduti tra i tavoli di trattorie e caffè. Pensate che io e Flaiano, ad un certo momento, volevamo aprire una specie di bottega, perché tutti venivano continuamente con oggetti da aggiustare, come si fa con le biciclette.
Avevamo molto amore per il Cinema e trovavamo il nostro lavoro divertente.
Le case erano fredde perché non c'era il riscaldamento e allora si andava in questi caffè dove, bene o male, qualcosa di caldo si poteva sorbire, ma anche sentire.
La fase di nascita del film avveniva lì; ci si metteva in due, tre o quattro al tavolo e, magari, mentre noi eravamo impegnati in un film di Totò, al tavolo a fianco lavoravano a un film tragico. Di bello c'era la ricerca e la scoperta di tutto.
Il Neorealismo è conseguenza della guerra e di alcune necessità. È l'arte del girare dal vero, con attori presi dalla strada; è un nuovo modo di guardare le cose, cioè di guardarle direttamente, senza più l'evasività o l'evasione di tipo americano o italo-fascista.
Non c'è dubbio che la prima e più superficiale reazione alla realtà di tutti i giorni è la noia. Finché non si riesce a superare e a vincere la pigrizia intellettuale e morale, la realtà ci sembrerà priva di qualsiasi interesse.
Con il Cinema neorealista non si tratta più di far diventare reali le cose immaginarie, ma di far diventare significative al massimo le cose quali sono.
Perché la vita non è quella inventata nelle storie, la vita è un'altra cosa».

(Suso Cecchi D'Amico, ovvero Giovanna Cecchi, sceneggiatrice)

martedì 5 maggio 2015

«La notte ha il suo profumo, puoi cascarci dentro, ché non ti vede nessuno»

Felicità è (anche) starsene seduti sul bordo di un marciapiede in piazza, alle 3 di notte, crogiolandosi tra il vento tiepido di primavera e l'effetto di qualche bicchiere alcolico, che sale su dalla gola alle guance.
Leggeri e senza pensieri, si sentono da lontano le note di una chitarra e, tutto intorno, silenzio.
Oggi ho una candelina in più sulla mia torta. Guardo indietro e mi accorgo di essere cambiata, in meglio, speriamo.

domenica 26 aprile 2015

Quando un ricordo non si può che chiamarlo con il suo vero nome. Un 25 aprile passato sui monti, dove hanno memoria anche le querce.

Anche ieri la sveglia è suonata alle 7.15 e un'ora dopo eravamo già sul treno per Marzabotto.
La cittadina non aveva abitazione che non sventolasse tra le finestre la bandiera italiana con sopra scritto a caratteri cubitali "Viva la Resistenza".
In poche altre città d'Italia queste tre parole suonano così violente, proprio perché, per essere fedeli a questa frase e all'idea che le si cela dietro, 771 civili e numerosi partigiani furono vittime della strage che porta il nome del posto, compiuta per mano dei nazifascisti, nella settimana tra il settembre e l'ottobre del 1944.
Passiamo sopra il fiume Reno e, a piedi, saliamo in cima a Monte Sole.
Mi accorgo che con il passare dei minuti si vede arrivare sulla vetta sempre più gente, fino ad essere veramente in tanti. Ragazzi, anziani e famiglie... c'è la musica, si canta e si mangia. È festa! Piantati su una collina, ci sono i "mille papaveri rossi" fatti di carta dai bambini della Scuola di Pace, ma lungo un sentiero non troppo distante c'è un peso diverso.
L'installazione della Via Crucis che collega la chiesetta al cimitero di Casaglia è alla rovescia.
Gli abitanti che si rifugiarono dentro la chiesa furono strappati da lì con forza e portati a morir fucilati proprio dentro il camposanto, colpevoli di aver sostenuto la lotta partigiana, ma erano anche donne con in braccio i loro neonati, erano anche bambini e nonni che in vita loro non avevano mai impugnato una pistola e neanche avrebbero saputo come farlo. La chiesetta venne invece bombardata, con dentro il parroco e due suore.
Nel pomeriggio arriva anche Adelmo Cervi, figlio di uno dei sette fratelli. Adelmo è sulla sedia a rotelle con la gamba ingessata. È incazzato per come stanno andando le cose in Italia, ma contento di vedere che ciò per cui la sua famiglia ha sofferto ha dato i suoi frutti e che c'è sempre speranza e voglia di migliorare. La sua famiglia, dice lui, è un albero che è stato brutalmente sradicato, in un colpo solo, ma che ha lasciato in terra un piccolo provvidenziale seme. «Se volete capire la mia famiglia, guardate ciò che ha lasciato. Il nostro seme è l'ideale nella testa dell'uomo».
Avere un pensiero e portelo esprimere senza persecuzioni non è fortuna da poco e la Costituzione che per noi hanno eretto è un dono prezioso.

Ce ne andiamo sul tardi pomeriggio, con la schiena a pezzi per i chilometri fatti a piedi e il treno ci riporta a casa, stanchi, ma felici.


giovedì 9 aprile 2015

Avvicinare l'orizzonte

Freud aveva elaborato il concetto di sentimento oceanico, ovvero quell'attrazione che ognuno di noi prova nel profondo per l'oceano come simbolo dell'illimitato e dell'avventura, ma anche come analogia del vaso di Pandora, scrigno d'acqua contenente al suo interno chissà quali segreti, davanti al quale non possiamo proprio trattenerci dall'andare a curiosare.
In poche parole, l'oceano è metafora della vita e così penso sia anche nel romanzo di Melville. Tra queste onde navighiamo noi, con le nostre speranze, paure e ambizioni, che si incarnano nelle nostre personali balene bianche.
Il capitano Achab, si sa, muore affogato pur di riuscire a catturare e fare sua Moby Dick, ma lei è una proiezione, un miraggio fantasma, troppo grande per essere domata ed è ovvio che, per quanto si cammini, lei scivoli sempre un po' più in là. Achab non avrebbe dovuto perdere la bussola interiore, facendosi sopraffare dai suoi desideri. 
Spaventevole a dirsi, ma non è poi così marcata la linea che separa un sogno da un'ossessione. Sarebbe bene imparare, ogni tanto, a guardare i propri traguardi in modo razionale, a fare un passo alla volta.
La balena si nutre dei nostri pensieri e, quanto più ci si affanna e ci si fissa, tanto più lei si ingigantisce, fino a divorarci del tutto.
Così smetto la corsa e mi fermo a riprendere fiato.
Schiarisco la mente e la mia dannata Moby Dick ritorna ad essere quella che era, un innocuo pesciolino (facile da acchiappare).

mercoledì 25 marzo 2015

Si tratta di perdersi

Niente è più istintivo che considerare ogni cosa a partire da sé, scelto come centro del mondo.
La realtà che ci circonda è ovviamente soggettiva, cambia a seconda di come noi pensiamo che sia e da come poi ci rapportiamo con lei.
Per quanto dei pensieri possano essere simili tra loro, nessuno può mai vedere ciò che vedo io, né io quello che vedono gli altri...
Invece, ecco il Cinema.
Occhio meccanico che diventa specchio dell'anima di chi lo guida e noi, perdendoci dentro queste immagini, riusciamo a vestire i suoi panni.
Mi ero iscritta all'università, poco più di due anni fa, con l'intento di seguire altri studi, ma a lezione, davanti a Le tempestaire di Jean Epstein, ho avuto un colpo di fulmine che mi ha fatto cambiare rotta.
Amo studiare Cinema perché amo l'essere umano.
"Kίνημα" significa "movimento" e, alla velocità di 16 o 24 fotogrammi al secondo, quelle impronte marchiate a fuoco sulla pellicola si fanno carico e prendono la forma del profilo antropologico dell'uomo dietro la macchina da presa.
Ogni inquadratura si colora delle diverse tonalità delle quali l'artista è composto, ma far cinema e studiarlo significa anche imparare a vedere, percezione al quadrato.
Per la prima volta riesco a rendermi conto di cosa ho veramente intorno e di quanto tutto questo sia bello.
Indice destro su pollice sinistro, indice sinistro su pollice destro, basta affacciarsi da questa finestra per riscoprire tutto nuovo.
Davanti ai nostri occhi si scaraventa l'essenza del mondo quotidiano, che fino ad un attimo fa era stropicciato e stravissuto, talmente usuale da esser divenuto insipido e, invece, attraverso la lente, se ne trae l'impressione di qualcosa mai visto, una rivelazione improvvisa.
La materia si spezzetta e ogni sua frazione assume un'espressione particolare. Un panteismo rinasce al mondo e lo riempie fino a farlo scricchiolare, mentre il tempo sembra per un attimo sospeso.
Il Cinema, rivelando la realtà, la crea, la inventa e, come minimo, reinventa il nostro pensiero.

Altro grande amore è Lo sguardo di Ulisse di Angelopoulos.
Alla ricerca di tre bobine perdute dei fratelli Manakis, contenenti alcune delle primissime immagini fissate su nastro.
Il "primo sguardo", appunto.
Ma questa ricerca è soltanto una scusa per provare a guardarsi dentro.
 


giovedì 26 febbraio 2015

La mancata di ciclicità e i dubbi esistenziali che comporta

Lontana dal resto del mondo, ho eretto i mattoni della mia immaginaria "stanza tutta per me", ci sono solo io qui. Solo pochi minuti, non chiedo altro che un attimo di tregua, potermi godere la lentezza del rumore dei miei polmoni inspirare tutta l'aria che riescono a trattenere e ricacciarla fuori, poi esco.
Entrambe le mani sono appoggiate poco al di sotto dell'ombelico, sui due lati del basso ventre, in modo da mantenere tutto il calore. Ho imparato a mie spese (e non solo mie) che molti dei sintomi fisici e dolori che percepiamo derivano da disordini emotivi, crisi psicologiche.
Congelata e inerte di fronte alla paura di qualsiasi cosa mi si presentasse davanti, ho vissuto un periodo, per buona sorte superato, in totale balìa della vertigine, senza poter fare un altro passo per terrore di crollare, trattenevo il fiato e rimanevo in apnea per paura di non riuscire più a respirare. 
Se questa è stata la mia debolezza, l'amore che ho per la vita è riuscita a sconfiggerla e mai avrei pensato di essere così coraggiosa.
Questa lotta però ha lasciato sul mio corpo i segni di aggressione, ferite che devo ancora risanare. 
La mia femminilità è stata lacerata e tra questi brandelli avverto il vuoto, invisibile per coloro che non abitano la mia pelle e che si soffermano alla superficie, ma c'è.
Si dice che una macchia di sangue non basti per diventare o essere una donna, ma è pur sempre necessaria e non avere neanche quella rende una femmina più confusa di quanto non lo sia già per antonomasia.
Mi sento esclusa, incompleta, uscita dal cerchio delle danzatrici, spogliata di uno dei più splendidi misteri del creato, che mesi fa possedevo anche io.
Così la mia innata indole materna (essendo primogenita) si è mescolata, come l'acqua con l'olio, con la ferma (e stupida, lo so...) convinzione che l'atto di procreazione sia la realizzazione di un desiderio principalmente egoista e con l'inquietudine per la sofferenza della separazione causata da un probabile parto.
Ecco, quest'idea mi trattiene e non mi molla.
Molto spesso niente può distogliermi dalla malata opinione che far nascere una creatura in questo mondo sia estremamente sadico, tutto in contraddizione con quello che ho scritto l'ultima volta e con la mia vitalità.
Non mi dilungo per timore di cadere nel ridicolo o in discorsi troppo intrecciati per scioglierne i nodi, non saprei neanche io dove andare a parare; so solo che sono due pensieri e modi di fare troppo diversi perché questi possano convivere insieme, e io convivere con loro.
Ritorno sdraiata sul letto, con le gambe all'insù appoggiate al muro, a chiedermi quando riuscirò di nuovo a sentire che anche il mio grembo possa abbracciare al suo interno un universo e quanto ancora bisogna aspettare per poter maturare davvero.
Per adesso ripongo le mie ultime speranze nelle inani tisane di edera e un po' di yoga.

mercoledì 4 febbraio 2015

Mentre la città si risveglia, in un mattino d'inverno

Dentro di me si è accesa una luce.
L'ho sentita nascere distintamente, mentre camminavo a passo svelto tra le vie della città. Una forma d'amore che rifiuta la troppo stretta capienza di qualunque termine scritto o verbale, eppure vuol essere rivelata e pungola a scribacchiare.
Alle 7 e mezza di mattina, Bologna ancora faticava, nel freddo, a riprendersi dal sonno notturno. Tra la calma generale si poteva scorgere solo il rumore delle serrande che venivano alzate e, passando davanti ai bar, quello dei cucchiaini sbattere sulle tazzine da caffè; una giornata come tante, che di speciale avrebbe avuto solo un cielo color bianco latte e forse qualche fiocco di neve.
Invece eccolo, mi riscalda e inizio a camminare più veloce, in modo euforico.
È il calore che si prova nel petto all'arrivo di una vita nuova; un bimbo, un fratello.
Le cose d'ora in poi saranno diverse, ma i cambiamenti di questo genere non possono che renderle migliori. Pensavo a questo stamattina e poi, dal cielo, qualche batuffolo bianco è caduto realmente.