domenica 31 gennaio 2016

Forse solo un delirio retorico

Ci sono giornate durante le quali non si apre bocca, se non per rispondere a monosillabi a qualche domanda, perché si pensa di non aver niente da dire.
Eppure non si sa che cosa si ha da dire finché non si comincia a dirlo, ed è proprio il momento in cui si comincia a parlare che decide di quello che si dirà.
Eh, quest'ultima frase è di Nicola Chiaromonte.
Lui è stata una delle mie ultime grandi scoperte. Diceva bene il libraio della bancarella che mi ha venduto Che cosa rimane. Si è raccomandato che un libro così non merita di esser sfogliato due pagine per poi finire dimenticato sugli scaffali a prendere polvere; in tal caso mi ha pregato in anticipo di riportarglielo, dicendo che mi avrebbe reso indietro anche i 15 euro spesi.
Data la premessa, non ho voluto neanche la bustina per portarlo via, me lo sono tenuto stretto al petto fino al portone di casa.
Ora sono nascosta dietro a un paio di occhiali rotti, aggiustati con lo scotch.
Le lenti si appannano quando finisco l'ultimo sorso dalla tazza che ancora scotta e sul fondo intravedo il mio riflesso deformato. I miei due occhi mi guardano e io ricambio, amorevolmente. Chi non si dà mai un bacio allo specchio?!
Non c'è niente di male a volersi ascoltare di più e da adesso accetto anche i pensieri folli, propri di chi è fresco di letture e visioni sbagliate.
Il peso di queste idee lo lascio alla serie di mensole storte, attaccate al muro in modo preoccupante, su di me lo lascio scivolare, non ho più bisogno di mordermi le labbra.
Trovo me stessa nell'utilità dell'inutile, nella poltrona vuota di un cinema che vado a riempire o nel solito posto a sedere dell'autobus, nello spicchio di cielo che è possibile vedere dalle sbarre di ferro dell'unica finestra qui nella casa in affitto, e mi basta.
Ma sotto questa finestra continuo a sillabare parole ad alta voce e come sempre il suono esce un poco incrinato, offeso per la poca importanza che solitamente gli do.
Dopo tutto questo prestarsi attenzione, dei concetti afferrati bisognerebbe farne dialogo.
Però ecco, a proposito, è venerdì sera e chi se ne frega dell'introspezione. Thomas si è già vestito e io metto su un sorriso sincero, ché fuori ci aspettano.

domenica 24 gennaio 2016

Rovine, passaggio al contrario della vita

Tira giorno da questi due vetri che non regalano mai l'alba.
Al buio faccio mucchietto con le briciole dei biscotti e, mentre spolvero con gesto assente e automatico, pulisco anche quella caliginosa soffitta che è la mia testa. Un'oretta, prima di farmici scendere sopra un altro tipo di pulviscolo, materiale.


Un grande organismo rantola faticosamente.
Gabriele Basilico vedeva invece, la città, come un corpo che respira.
Davanti, lo stato di abbandono di costruzioni e opifici, regrediti ad anonimie geografiche.
Una macchina fotografica può forse sfruttare in senso lirico questi luoghi infernali e fantasma, lascio dunque trasparire il senso di appartenenza che qualcuno ha ancora nei confronti di questi spazi liminari, paesaggi che hanno assunto le trasformazioni - che su di loro sono ferite - del processo storico a volte estraneo a questi edifici/palcoscenici, i cui sipari anche allora son rimasti chiusi a nasconderne gli attori.
Una sola mossa può incaricarsi di riscattare il presente a partire dal passato, saldando il divario creatosi tra queste due temporalità attraverso una serie di immagini, esigenze che legano alla cosa ritratta. Il sentimento d'amore e la rabbia per questi posti interiorizzati, posti che sono soprattutto altrui ricordo, prendono corpo e prenderanno poi corpo su una stampa baritata o politenata che sia, da regalare. Dentro l'architettura di muri scrostati e scalcinati, quando più nessuno è attorno, il silenzio si fa grido, che il vuoto e la sua eco amplificano, e la mia apparente quiete credo risuoni altrettanto forte.