domenica 26 aprile 2015

Quando un ricordo non si può che chiamarlo con il suo vero nome. Un 25 aprile passato sui monti, dove hanno memoria anche le querce.

Anche ieri la sveglia è suonata alle 7.15 e un'ora dopo eravamo già sul treno per Marzabotto.
La cittadina non aveva abitazione che non sventolasse tra le finestre la bandiera italiana con sopra scritto a caratteri cubitali "Viva la Resistenza".
In poche altre città d'Italia queste tre parole suonano così violente, proprio perché, per essere fedeli a questa frase e all'idea che le si cela dietro, 771 civili e numerosi partigiani furono vittime della strage che porta il nome del posto, compiuta per mano dei nazifascisti, nella settimana tra il settembre e l'ottobre del 1944.
Passiamo sopra il fiume Reno e, a piedi, saliamo in cima a Monte Sole.
Mi accorgo che con il passare dei minuti si vede arrivare sulla vetta sempre più gente, fino ad essere veramente in tanti. Ragazzi, anziani e famiglie... c'è la musica, si canta e si mangia. È festa! Piantati su una collina, ci sono i "mille papaveri rossi" fatti di carta dai bambini della Scuola di Pace, ma lungo un sentiero non troppo distante c'è un peso diverso.
L'installazione della Via Crucis che collega la chiesetta al cimitero di Casaglia è alla rovescia.
Gli abitanti che si rifugiarono dentro la chiesa furono strappati da lì con forza e portati a morir fucilati proprio dentro il camposanto, colpevoli di aver sostenuto la lotta partigiana, ma erano anche donne con in braccio i loro neonati, erano anche bambini e nonni che in vita loro non avevano mai impugnato una pistola e neanche avrebbero saputo come farlo. La chiesetta venne invece bombardata, con dentro il parroco e due suore.
Nel pomeriggio arriva anche Adelmo Cervi, figlio di uno dei sette fratelli. Adelmo è sulla sedia a rotelle con la gamba ingessata. È incazzato per come stanno andando le cose in Italia, ma contento di vedere che ciò per cui la sua famiglia ha sofferto ha dato i suoi frutti e che c'è sempre speranza e voglia di migliorare. La sua famiglia, dice lui, è un albero che è stato brutalmente sradicato, in un colpo solo, ma che ha lasciato in terra un piccolo provvidenziale seme. «Se volete capire la mia famiglia, guardate ciò che ha lasciato. Il nostro seme è l'ideale nella testa dell'uomo».
Avere un pensiero e portelo esprimere senza persecuzioni non è fortuna da poco e la Costituzione che per noi hanno eretto è un dono prezioso.

Ce ne andiamo sul tardi pomeriggio, con la schiena a pezzi per i chilometri fatti a piedi e il treno ci riporta a casa, stanchi, ma felici.


giovedì 9 aprile 2015

Avvicinare l'orizzonte

Freud aveva elaborato il concetto di sentimento oceanico, ovvero quell'attrazione che ognuno di noi prova nel profondo per l'oceano come simbolo dell'illimitato e dell'avventura, ma anche come analogia del vaso di Pandora, scrigno d'acqua contenente al suo interno chissà quali segreti, davanti al quale non possiamo proprio trattenerci dall'andare a curiosare.
In poche parole, l'oceano è metafora della vita e così penso sia anche nel romanzo di Melville. Tra queste onde navighiamo noi, con le nostre speranze, paure e ambizioni, che si incarnano nelle nostre personali balene bianche.
Il capitano Achab, si sa, muore affogato pur di riuscire a catturare e fare sua Moby Dick, ma lei è una proiezione, un miraggio fantasma, troppo grande per essere domata ed è ovvio che, per quanto si cammini, lei scivoli sempre un po' più in là. Achab non avrebbe dovuto perdere la bussola interiore, facendosi sopraffare dai suoi desideri. 
Spaventevole a dirsi, ma non è poi così marcata la linea che separa un sogno da un'ossessione. Sarebbe bene imparare, ogni tanto, a guardare i propri traguardi in modo razionale, a fare un passo alla volta.
La balena si nutre dei nostri pensieri e, quanto più ci si affanna e ci si fissa, tanto più lei si ingigantisce, fino a divorarci del tutto.
Così smetto la corsa e mi fermo a riprendere fiato.
Schiarisco la mente e la mia dannata Moby Dick ritorna ad essere quella che era, un innocuo pesciolino (facile da acchiappare).